IL D. Lgs. 116/2020, come ormai noto, ha introdotto novità importanti circa la definizione di rifiuto urbano.

In particolare, la modifica dell’art. 183 del D. Lgs. 152/06 porta alla definizione di quali siano le attività che possono generare rifiuti da considerarsi urbani (allegato L-quinquies) ed esclude dalla possibilità di essere definiti urbani i rifiuti della produzione.

Tuttavia, nel D. Lgs. 152/06 è rimasto l’art. 184, comma 3, lettera c) che inserisce tra i “rifiuti speciali” i rifiuti prodotti nell’ambito delle lavorazioni industriali, se diversi da quelli di cui al comma 2, cioè dai rifiuti urbani, si lascia quindi intendere che le attività industriali possono produrre anche rifiuti urbani.

Sorge quindi un problema interpretativo sull’unione dei due articoli appena richiamati; non risulta infatti chiaro come le attività industriali debbano comportarsi per il pagamento della TARI (tassa sui rifiuti), in particolare se debbano comunque pagare la quota fissa e su come calcolare il pagamento della quota variabile.

Ha provato a mettere ordine sulla questione il dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia. L’indicazione è che resta valida l’applicazione della Tari sulle superfici produttive di rifiuti urbani, cioè quanto non sia riconducibile alla parte produttiva dell’attività. Ad esempio , sono considerate produttive, e quindi generatrici di rifiuti speciali, le superfici adibite alla lavorazione e quelle destinate al magazzino delle materie prime e delle altre merci funzionali alla produzione.

Sono invece superfici produttive di rifiuti urbani le altre aree aziendali, quali ad esempio le mense, gli uffici, i servizi, i depositi di prodotti non strettamente collegati alla lavorazione dei prodotti.

Su queste superfici, resta l’applicazione della Tari sia per la quota fissa che per quella variabile.

Altro aspetto interessante introdotto dal D. Lgs. 116/20 relativamente alle attività non domestiche, quindi anche le industriali, è quello relativo alla possibilità di conferire i rifiuti urbani al di fuori del servizio pubblico, dimostrando di averli avviati a recupero tramite attestazione rilasciata dal soggetto che effettua l’attività stessa di recupero (art. 198, comma 2bis D. Lgs. 152/06, introdotto dal D. Lgs. 116).

La norma è di difficile lettura, in quanto non coordinata con quanto vigente in tema di Tari. Infatti, sottintende che tutta la parte di rifiuti urbani debba essere avviata a recupero per almeno cinque anni per usufruire dell’esclusione dal pagamento della quota variabile della tassa.

Ciò è in contraddizione con la Legge 147/2013, art. 1, comma 649, che prevede che per i rifiuti assimilati agli urbani (con la modifica dell’art. 183 sono da intendersi come urbani) prodotti da attività industriali, il Comune può prevedere riduzioni sulla parte variabile della Tari proporzionali alle quantità avviate al recupero.

Siccome l’ambito di applicazione delle due norme può essere differenziato (da un lato si parla di avvio al recupero di tutti i rifiuti urbani, dall’altro solo di una parte), il dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia ha precisato che:

– Se un’utenza non domestica vuole evitare il pagamento di tutta la quota variabile della Tari deve avviare a recupero tutti i rifiuti urbani per almeno cinque anni

– Se l’utenza non domestica avvia a recupero solo una parte dei rifiuti urbani, rimane nell’ambito di applicazione dell’art. 1, comma 649 della L 147/2013 e quindi può usufruire di una riduzione della quota variabile della Tari proporzionale alla quantità avviata a recupero, disciplinata dal regolamento comunale, senza l’obbligo temporale dei cinque anni

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